TRAZIONE INTEGRALE: FACCIAMO UN PO’ DI CHIAREZZA 1
La storia della trazione integrale sulle vetture stradali nasce nei primi anni ’80 quando Audi pensò bene di portare il loro know-how sui mezzi militari nel mondo dei rally. Il regolamento delle gare rally aveva una clausola che impediva l’uso delle 4 ruote motrici, modificando questa deroga, Audi si presentò con la famosa Audi quattro al campionato mondiale rally dell’83 – che fu poi vinto dalla Lancia con la 037, ultima vittoria di una due ruote motrici – e dimostrò al mondo la competitività di questa soluzione. Dal mondo delle competizioni, come spesso accade, derivarono una serie di soluzioni integrali anche per le vetture stradali di uso quotidiano. Primi furono i SUV alla fine del secolo scorso e qualche specifica vettura come Audi, appunto, e Subaru tra le principali. Pian pianino la tecnica integrale si è evoluta ed espansa anche alle vetture, seppure con soluzioni e finalità differenti. Cerchiamo di capirne l’essenza. Partiamo dai SUV. Le prime soluzioni derivavano direttamente dai fuoristrada. Il concetto è molto semplice: distribuire la coppia motrice su quattro ruote anziché su due, consentiva ad ogni ruota di avere una porzione di coppia motrice a disposizione, con un vantaggio importante: a parità di coppia erogata dal motore, quella trasmessa da ogni singola ruota era inferiore, dimezzata. Ed è proprio qui che bisogna fare chiarezza. Quando si pensa ad un mezzo che si muove sul terreno, si deve considerare che il movimento è dato dal fatto che la spinta della ruota consente di trascinare il mezzo, solo se il terreno su cui poggia è in grado di fornire una uguale e contraria forza di reazione. Se il terreno è viscido, neve, fango, ghiaia, foglie, ecc… la sua “reazione” è molto debole. Se la spinta della ruota è elevata e la sua resistenza è minima, la ruota scivola. Quindi è necessario accelerare con molta cautela e, alle volte, anche con la minima spinta, le ruote scivolano. Per esempio in salita, dove la “forza” per far avanzare il mezzo è spesso superiore alla “resistenza” del terreno sulle due ruote motrici. Se nella identica situazione, con la medesima spinta (coppia motrice) la forza viene distribuita su quattro ruote, ogni ruota ha una porzione dimezzata di coppia, e questa è inferiore alla resistenza del terreno, perciò il mezzo può procedere. Ecco perché tutti i fuoristrada sono muniti di trazione integrale. Questo è abbastanza semplice e chiaro. Il passo successivo è un pochino più complicato. Dato che ci si trova su un terreno a scarso coefficiente di attrito, è abbastanza logico pensare che comunque una o più ruote possano arrivare a superare la resistenza del terreno, mettendosi a scivolare. La coppia motrice è un po’ come l’acqua: sceglie sempre la strada con meno resistenza. Quindi se su quattro ruote in accelerazione, una trova una porzione di terreno con scarsa resistenza, tutta la coppia motrice sceglie questa strada per scaricarsi sul terreno: la ruota scivola e le altre rimangono ferme, come il mezzo. Che fare? Aumentare la forza resistente di quella ruota è l’unica soluzione possibile. Mettendo dei rami sotto la ruota, frenandola con i freni, oppure mettendo dei freni all’interno della trasmissione per “distribuire” la coppia motrice. Com’è fatta una trasmissione a quattro ruote motrici? All’uscita del cambio – manuale o automatico che sia – si trova un elemento meccanico che si chiama differenziale. Non è altro che un sistema di ingranaggi che ha un albero di entrata e due alberi di uscita i quali possono trasmettere parte della coppia motrice ai due assi – anteriore e posteriore, cui sono collegati -, che però sono liberi di ruotare anche a differenti – da qui il nome – velocità tra loro. Normalmente questi differenziali centrali trasferiscono equamente la coppia ai due assi. Ogni ruota riceve quindi il 25% della coppia motrice prodotta. Se uno dei due assi cominciasse a slittare, la sua velocità di rotazione relativa, rispetto all’altro asse, acquisterebbe dei valori molto elevati. E qui interviene il “freno” del differenziale – che viene chiamato blocco – che può essere manuale, come nei più classici dei fuoristrada, oppure automatico. Anche in questo caso i tecnici si sono sbizzarriti nelle soluzioni. La più semplice è stata quella di dotare il differenziale di un blocco meccanico che interviene molto efficacemente frenando l’asse “ribelle” in modo netto e potente. In questo caso si parla di differenziale autobloccante meccanico. Il più noto è proprio quello utilizzato da Audi fin dall’esordio: il Torsen. Efficace, potente, netto, l’unico neo è la necessità di avere un valore di coppia di innesco piuttosto elevato: con un’Audi si sale sempre, è necessario però abbondare sempre con il gas. Un altro valido sistema è quello di utilizzare un blocco a gestione elettronica. In questo caso il blocco del differenziale viene eseguito da un sistema di frizioni gestite da una logica elettronica che sorveglia ambedue gli alberi d’uscita e analizza la loro velocità relativa. Superata una certa soglia interviene elettromeccanicamente o idraulicamente a bloccare attraverso l’intervento di un piatto di frizioni che frenano l’asse che ruota più velocemente e lo riporta alla stessa velocità dell’altro. Questo sistema funziona molto bene anche con accelerazioni molto leggere. Neo: di solito non sono in grado di gestire valori di coppia molto importanti, perché strutturalmente non possono essere troppo ingombranti. Ma i SUV sono mezzi concepiti per un uso promiscuo – almeno come concetto – tra la strada e il fuoristrada o sterrato. E quindi è ovvio che abbiamo dei sistemi di trazione particolarmente adatti. Interessante è vedere come la trazione integrale si sia diffusa anche tra le vetture più prettamente stradali, senza velleità di fuori strada. Ma questa è un’altra storia…